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Pensare per immagini. I rebus murali di Marentino

La rappresentazione del mondo, fino alla comparsa della fotografia era affidata alla mano dell'uomo - al disegno, alla pittura, - tutte rappresentazioni piane, Imprecise, difficilmente riproducibili e, ancor più difficilmente trasportabili; l'invenzione del quadro ha reso possibile il trasporto, senza però cambiare granché del resto. La fotografia, ha sostituito ritratti e vedute fatti a mano, fornendo rappresentazioni del mondo sempre piane, ma piccole, leggere, trasportabili, e per di più ingrandibili e riproducibili; era ancora una pratica che richiedeva delle conoscenze tecniche - per via della macchina, del procedimento chimico - ma facilmente acquisibili un po' da tutti, ed ha così cancellato l'aura che avvolgeva la riproduzione del mondo come fatto visivo, facendone una questione tecnica, prosaica, come rivela l'accento posto sulla sua natura dì 'disegno automatico', sulla sua capacità di 'documentare' in modo veloce e preciso, sul suo utilizzo nei rilievi degli edifici antichi da restaurare, sostituendo rilevatori e disegnatori. Questa idea prosaica della fotografia era l'idea di Atget (1), fotografo per caso dopo tanti mestieri, che con laconico disincanto sulla porta dello studio aveva scritto "si fanno documenti", perché lui aveva cominciato proprio riprodu-cendo, per architetti pigri, particolari costruttivi e decorativi di edifici antichi, ma anche, per trattori orgogliosi, le vetrine con insegna di ristoranti e osterie: tutte riproduzioni del mondo 'piatte', anche per via della ripresa frontale.

Questa idea prosaica della fotografia, cento anni dopo, è ancora l'idea di David Hockney - pittore e fotografo (2) -il quale, con il candore malizioso e provocatorio degli intellettuali inglesi, sostiene che "la fotografìa serve soprattutto alla riproduzione di quadri", appiattendo cosi la rappresentazione sulla riproduzione, riducendo la fotografia ad operazione tecnica che non aggiunge niente, produce solo un doppio del quadro; non è però solo una battuta, perché Hockney spiega "ora credo che il miglior uso che si possa fare della fotografia, il suo miglior uso, sia fotografare altre raffigurazioni. Solamente questo utilizzo le può permettere di tenere fede agli scopi del suo mezzo, cioè quelli di realtà: questo è l'unico modo di scattare una fotografia che presentì una forte illusione di verità, perché sulla superficie piatta della fotografia è riprodotta semplicemente un'altra superficie piatta" e non si può dire che abbia torto. David Hockney però dice anche "non si fanno foto della vita quotidiana. La maggior parte della gente vuole registrare quando viaggia. Lo faccio anch'io. Mi sono accorto, però che se non le mettevo in un album, non le avrei più guardate". E' questa un'idea della fotografia ancora prosaica, la stessa che con eguale candore Luigi Ghirri -prima geometra e poi fotografo della provincia italiana tra i più noti ed amati - avanza quando dice "le fotografie sono quelle cose che si fanno per ricordare qualcosa e che si mettono negli album per riguardarle" (3).

Queste definizioni della fotografia possono sembrare provocazioni intellettuali, ma hanno dalla loro la lezione di Wittgenstein, che dice che il senso delle cose sta non in una loro essenza metafisica, indimostrabile, ma piuttosto nell'esperienza riscontrabile del loro uso ripetuto, diffuso. Facciate decorate, dipinte, ce ne sono sempre state: io ricordo i palazzi rinascimentali di Saluzzo, di Mondovì, che hanno facciate come grandi quadrerie, o i trompe-l'oeil metropolitani venuti di moda con il post-modernismo visti a Parigi - sempre comunque immagini senza parole - ma ricordo anche le testate cieche delle case di Parigi fotografate cent'anni fa da Atget, coperte dalle scritte della pubblicità - parole senza immagini.

Le facciate di Marentino con i rebus murali, sono ancora un'altra cosa: immagini con parole, ma non parole intere immediatamente decifrabili come nei cartelloni giganteschi della pubblicità oggi, ma solo qualche lettera, che attira lo sguardo come un messaggio incompiuto. Nelle grandi scene animate a grandezza naturale, con persone, animali, treni, piloni, dipinti in modi iperrealistici, sono le grandi lettere maiuscole che introducono un brivido di sorpresa - come le lettere mane, tecel, fares tracciate sul muro da una mano gigantesca nella storia dell'Antico Testamento - ed obbligano il rimirante a reagire ri-guardando gli affreschi - di cui cambiano lo statuto: da rappresentazione del mondo a messaggio criptato - ad 'entrare' nelle immagini, che non possono essere colte con una sola occhiata, ma devono essere percorse in modo erratico alla ricerca del testo nascosto.

Fotografare i rebus murali è allora un'operazione a prima vista semplice, scontata, perché produce immagini che riproducono delle immagini, ma invece, può richiamare questioni centrali e problematiche nella pratica della fotografia: non solo quelle già poste da David Hockney, ma, ancora una volta, quelle poste da Luigi Ghirri, quando ha riassunto nella frase "pensare per immagini" il compito del fotografo, della fotografia; ebbene proprio questo fanno i rebus murali di Marentino: immagini che ci obbligano a pensare, a ri-pensare le immagini, le parole, il loro senso complessivo.

Fotografare i rebus murali come quadri, facendo coincidere immagine dipinta e immagine fotografata, come si fa per i libri d'arte, appariva però operazione semplicistica, riduttiva: come fare altrimenti? David Hockney dice ancora "se si fa un passo indietro, la cosa è un po' diversa": di qui l'idea di fare un passo indietro, di aprire l'inquadratura al contesto quotidiano in cui stanno i rebus, con una mossa semplice che produce effetti sorprendenti, che rende più evidente la mescolanza di mondo reale e di mondo rappresentato, una situazione strana, insolita, di mise en abîme - un quadro (qui la fotografia) che ha dentro un quadro (il dipinto) - che ha intrigato pittori come Velasquez, fotografi come Luigi Ghirri (4).

(1) Atget, Taschen, Koln, 2000

(2) David Hockney, Retrospective photoworks, Umschau, 1998

(3) Luigi Ghirri, Infinito, Biblioteca Meltemi, 2001, Roma.

(4) Massimo Mussini, Luigi Ghirri, Motta, Milano, 2001