Sisto Giriodi

 

Home Foto Testi

 

 

Atlante Piemontese

 

Atlante Piemontese

Atlante Piemontese

Libro Sindoni

Municipi Granda

Album di Natale

Rebus Murali

Uomo e Natura

Bivi Campestri

 

Atlante Torinese

 

Atlante Torinese
Sogni Neri

Bandiere della Pace

Ritorno al Futuro 2011

Abitare il Fiume

Case a colori

Case in finta pietra

Atlanti Eclettici

 

Atlanti Eclettici
Cancelli di Puglia

Parigi festa mobile

 

Le Bandiere della Pace

Le bandiere della pace, a Torino ma in tutta Italia, sono state una grande novità: infatti, a differenza delle bandiere della politica o dello sport, non sono bandiere ‘di parte’, di una parte contro un’altra , ed ancora, a differenza delle bandiere della politica o dello sport non sono state bandiere per un giorno, ma sono rimaste per mesi, anche dopo la fine della guerra.

La ‘campagna’ fotografica dedicata alle bandiere della pace è iniziata come forma di reazione personale ai ‘venti di guerra’, per rendere visibile la natura corale dell’opposizione alla guerra, per conservare il ricordo di un momento eccezionale. Partita sotto il segno dell’urgenza, un po' come un reportage, la ‘campagna’ è diventata poco a poco un’occasione di riflettere sulla fotografia, sulla sua natura e sulla sua pratica, ma anche sulle case e sulla città, sui modi di costruirla e di abitarla.

Queste bandiere infatti, a differenza delle bandiere della politica o dello sport nelle strade , a differenza dell’arcobaleno di adesivi, girandole, sciarpe, diffuse contemporaneamente dai pacifisti, ci portano a ri-guardare le case e le vie della città, ci portano a ri-pensare il tema della pace insieme al tema della città, perchè tutti e due riguardano il nostro modo di abitare, di essere nel mondo, e, in questo ri-guardare c’è la causa e l’effetto della fotografia che si fa "...guardando prima nel mondo, poi nella lastra (in macchina), poi nell’immagine finale...".

Così questa ‘campagna’ è diventata un lavoro sul ‘secondo sguardo’ in fotografia, inteso come sguardo del fotografo - che viene dopo e in più degli sguardi soliti - o come sguardo della macchina - parallelo ‘e ‘altro’ rispetto al nostro - ma comunque "...momento di riattivazione dei circuiti dell’attenzione..."grazie al quale "...lo sguardo diventa un sentire etico, la modalità possibile per indagare e raccontare luoghi che sembravano avere perso ogni riconoscibilità...".

La ‘campagna’ si è concentrata sulle bandiere ‘esemplari’, quelle che fioriscono su balconi ‘abitati’- tra le piante e il bucato, la bicicletta e la sdraio - quelle che ci parlano di vite quotidiane pacifiche, di persone che si prendono cura del mondo, a partire da quello domestico, così che la parola ‘pace’, non è qui segno estraneo e sovrapposto, ma è la parola che ci verrebbe comunque alle labbra davanti a questi ‘teatrini domestici’: ‘pace’ è il suono che questo mondo manda, è la parola che questo mondo dice già da solo e che, grazie alle bandiere ed alla fotografia, sentiamo più chiara e più forte.

* Le citazioni sono tratte dagli scritti di Luigi Ghirri al quale questo lavoro è dedicato.

 

 

Imagine. Le bandiere della pace.

 

Fotografare le bandiere della pace? ma se sono tutte eguali!

La domanda della giovane figlia di amici, incontrandomi per la strada con la macchina fotografica al collo, domanda ingenua e diretta come solo le domande dei giovani sanno essere, mi ha spinto a ripensare a questa ‘campagna’, iniziata senza pensarci due volte, così come era successo con la ‘campagna’ sui cantieri della metro nel centro storico iniziata nell’estate scorsa, già allora in una condizione di spirito vicina a quella di Mario Giacomelli dieci anni prima, all’epoca della prima Guerra del Golfo - "... ho dentro questa idea, questa paura di guerra e voglio fare cose reali, importanti...(1).

E’ stata una strana primavera, questa primavera di guerra: sono fioriti strani fiori, bandiere multicolori che sbocciano sulle facciate delle case. Le bandiere della pace alle finestre, ai balconi, sui terrazzi, sono una novità: una cosa così non si era mai vista; bandiere per un giorno sì, quelle delle squadre di calcio - il giorno della vittoria: della partita, del campionato o della coppa - o quelle dei cortei, del primo maggio - spiegate, sventolate e ripiegate - ma bandiere per un’idea e non per una squadra, per un partito, e ancora di più bandiere che durano, allegre e silenziose, questo non si era ancora visto.

Dato il posto crescente che la fotografia sta occupando nella mia vita, è diventato per me naturale, per non dire necessario, guardare le bandiere come fotografo: per salvarne il ricordo, come Atget davanti agli ultimi praticanti dei ‘mestieri’ della vecchia Parigi (2); per cogliere la traccia di un momento ‘decisivo’ (Cartier-Bresson) , anche se in realtà prolungato nel tempo, di un gesto capace di fare da catalizzatore e di dare luogo a configurazioni inedite tra gli elementi della vita quotidiana .

Guardare le bandiere della pace, giorno dopo giorno, è diventato anche guardare le case su cui fioriscono le bandiere per la pace, e scoprire poco a poco un legame possibile, anzi necessario, tra queste bandiere e la fotografia: infatti le bandiere, come la fotografia, fanno una cosa che i gadgets pacifisti - gli adesivi, le sciarpe - non possono fare: ci guidano a dare un secondo sguardo alle case, alla città, al mondo: come diceva Luigi Ghirri - il fotografo italiano più ‘pacifico’ - la fotografia dà.un secondo sguardo al mondo, così che il fotografo è uno che guarda il mondo una volta di più della gente comune, che guarda il mondo che nessuno in quel momento guarda, come nessuno lo guarda.

Anche un pittore della domenica dà al mondo un ‘secondo sguardo’, ma vicino al pittore della domenica uno può fermarsi e dare un secondo, anche un terzo sguardo - al mondo e al quadro - per giudicare la bravura del pittore dalla riconoscibilità del mondo nel quadro, mentre forse è perchè nessuno vede quello che vede il fotografo nella macchina, che tutti tirano diritto senza dare - al fotografo e al mondo - un secondo sguardo; solo i proprietari si fanno avanti perchè pensano che il fotografo sia un tecnico del comune e che la macchina fotografica voglia dire guai in vista, e così ti apostrofano aggressivi "perché fotografa la mia proprietà?", mentre nel caso delle bandiere della pace nessuno digrigna i denti, ma tutti sorridono rilassati per qualcosa di non detto ma di condiviso.

C’è per me in questo discorso di Ghirri sul ‘secondo sguardo’ l’eco di qualcosa di noto, qualcosa di quella che un filosofo, Husserl, ha chiamato ‘sospensione fenomenologica’ - cioé la sospensione del senso delle cose solito, scontato - quella che ho conosciuto nelle lezioni e nella pratica di architetto e di professore di Roberto Gabetti: in questo stato di sospensione, di apertura, lo sguardo interroga il mondo, un po' come quando guardiamo una seconda volta incerti nel riconoscere una cosa o una persona.

C’è per me in questo discorso di Ghirri sul ‘secondo sguardo’, in questa apertura a ri-guardare il mondo, l’eco di qualcos'altro di noto: un pensiero di Wittgenstein sull’arte (3) , in cui dice che, senza già essere da prima pieni di entusiasmo, l’oggetto (d’arte) è un pezzo di natura come qualsiasi altro, pensiero che riferisco a Ghirri perchè lui era già da prima pieno di entusiamo per il mondo, anche per aspetti minimi, modesti ; nello stesso pensiero c’è una lunga parentesi che sorprendentemente riprende il tema del ‘secondo sguardo’ in fotografia "...mi viene sempre da pensare a una di quelle insipide fotografie di paesaggio che sembrano interessanti a chi le ha fatte, perchè è stato in quei luoghi, vi ha vissuto un’esperienza; mentre l’altro le contempla con giustificata freddezza, se mai è giustificato contemplare con freddezza qualcosa ..." fino all’inciso finale, esempio di ri-pensamento, che potrebbe servire come ‘manifesto’ di una possibile teoria del ‘secondo sguardo’. Ghirri non cita Wittgenstein , ma i libri del filosofo sono sui ripiani della libreria di casa nelle immagini del suo ‘Identikit’ culturale (4) e mi piace pensare che potrebbe averlo letto e notato anche lui, che in uno scritto esorta a non ritenere nulla insignificante.

Pigro e impaziente come sono, cito sempre a memoria, e così questa volta mi sono imbarcato in un discorso lungo e difficile, quello del ‘secondo sguardo’, per accorgermi quando era già quasi tutto scritto che avevo operato uno slittamento della definizione che in realtà ne dà Ghirri (5): ne dò conto qui non per scrupolo ottuso , ma perchè mi sembra che la mia formulazione del ‘secondo sguardo’ colga comunque qualcosa della formulazione di Ghirri, per lui centrale in quanto enigma della fotografia, e possa quindi rimanere il punto di partenza, il centro di questo scritto.

Ghirri parla della fotografia come: "...magico evento per dare al nostro sguardo sul mondo un secondo sguardo successivo..." ed ancora della "...doppia visione che si ha quando si osserva una fotografia..." della "...differenza che esiste tra la cosa e la cosa fotografata... dello scatto percettivo del doppio sguardo che continua a catturarci...". Per Ghirri quindi il "secondo sguardo" è lo sguardo della macchina, che è "doppio" del nostro, parallelo al nostro ma diverso dal nostro, altro, e che è materializzato nella pellicola, mentre io ho parlato di "secondo sguardo" come di uno sguardo nostro, umano, mentale.

Lo slittamento deve essere avvenuto nell’inconscio mescolando il ricordo del ‘pensiero-immagine’ di Ghirri con i pensieri che negli stessi giorni stavo ruminando sulla pratica della fotografia approfittando della libertà concessami dall’anno sabbatico, così che ho finito per attribuire a Ghirri quello che pensavo io, per chiamare "secondo sguardo" lo sguardo del fotografo mentre fotografa, anzi addirittura lo sguardo sul mondo in cui c’è l’intenzione della fotografia, lo sguardo che nasce da un’attenzione al mondo diversa dal solito; come si vede però le due definizioni di ‘secondo sguardo’ hanno in comune l’accento posto sulla diversità di questo dagli sguardi soliti.

La distanza tra le due definizioni si riduce ancora, da una parte ricordando un’altra citazione di Ghirri che dice "...guardando prima nel mondo, poi sulla lastra (che è come dire nella macchina fotografica ), poi nell’immagine finale (pellicola o stampa)....", e dall’altra parte riconoscendo che in realtà è stato per me ‘secondo sguardo’ anche quello materializzato nelle diapositive, in cui le bandiere erano sempre comunque diverse da come le avevo viste io. Il carattere comune dei due modi di intendere il ‘secondo sguardo’ è per me quello che Ghirri chiama "...il momento di riattivazione dei circuiti dell’attenzione...di riattivazione sensoriale dello sguardo..." momento che può esistere anche senza che ci sia una fotografia ( quando decido di non scattare, quando non ho dietro la macchina, momento pre-fotografico che esisteva ed esiste ancora per i pittori, gli scrittori) ma pure momento che può non esistere anche se c’è una fotografia, se la fotografia diventa "...un gesto sempre più automatico, ripetitivo, senza senso...una forma di cecità di ritorno..."

Le bandiere che sventolano colorate al sole , per una legge della fisica, attirano lo sguardo su sè stesse, ma anche su finestre e su balconi che, senza le bandiere, difficilmente avrebbero attirato la nostra attenzione, su case che prima scorrevano indistinte nella visione ‘passiva’ che è il nostro modo di vivere la città: sono un invito a ‘secondi sguardi’ sulle case, sulla città, sguardi che possono essere anche solo fotografie ‘virtuali’ fatte da chiunque, anche senza macchina e senza pellicola, senza stampe, come quelle che ha continuato a fare nella sua testa Cartier-Bresson quando ha smesso di fotografare in senso proprio.

Che cosa ci dicono questi sguardi sulle bandiere?

Che ci sono bandiere ‘tristi’ perchè sole davanti a persiane chiuse, a balconi vuoti, che sembrano messe lì per dovere, ma ci dicono anche che ci sono bandiere ‘felici’ perchè circondate dai segni della vita. Tra le bandiere lo sguardo ha imparato a cercare e poi ha scelto di fotografare solo le bandiere ‘felici’, riconoscibili per la ricchezza dell’intorno immmmediato della finestra (tendine, fiori, persiane) o del balcone (bucato, piante, biciclette, sci, scale, tavolini seggiole, armadietti, tendoni, tappeti), o del negozio (pizzeria, ristorante, panettiere, giornalaio, sarto, benzinaio), perchè queste bandiere convivono felicemente non solo con la domesticità ‘privata’ - l’aspetto visibile della vita quotidiana delle singole famiglie -ma anche con la domesticità ‘pubblica’, che è l’aspetto visibile della vita quotidiana di chi offre servizi alla residenza.

Questo ri-guardare il mondo non è naturalmente circoscritto, non è facilmente circoscrivibile, così guardare queste nuove bandiere porta anche a ri-guardare il loro intorno immediato: la finestra, il balcone, la loggia, il terrazzo, a ri-pensare il carattere primo di questo intorno - in quanto costruzione - ed il suo carattere acquisito - in quanto abitazione - ed allo stesso modo il carattere - di costruzione, di abitazione - della casa intera, della facciata, e infine porta a ri-pensare alla pace a partire dalla coerenza avvertibile tra le bandiere ed il loro intorno.

Che cosa ci dicono questi ‘ secondi sguardi’ su finestre, balconi, negozi?

Dicono questi sguardi che ci sono case ‘calde’ (Branzi), che sono state disegnate e costruite - in modo conscio o inconscio (Caniggia) - per essere ospitali, o che si rivelano comunque oggi adatte ad essere ospitali, a volte addirittura di più di quando erano state appena costruite, sono le case che si avvertono abitate come alveari operosi, nelle quali i semi della vita quotidiana diventano piante rigogliose, così come ci sono case ‘fredde’, che sono state disegnate e costruite senza pensieri - né consci né inconsci - di diventare ospitali, carattere a cui sono difficilmente recuperabili tanto che ancora oggi non vi attecchiscono i semi della vita quotidiana: sono le case che sembrano disabitate di giorno ma anche la sera, perchè ci si vive come in un rifugio in tempo di guerra, con la luce accesa e le tapparelle abbassate,

Che cosa ci dicono questi ‘secondi sguardi’ sulle case ‘fredde’, sulle case ‘calde’?

Questi sguardi ci dicono che le bandiere ‘felici’ sono quasi sempre nelle case ‘calde’, così come le bandiere ‘tristi’ sono quasi sempre nelle case ‘fredde’; questi sguardi ci dicono ancora che le case ‘calde’, stanno quasi tutte nelle parti della città costruite fino all’ultima guerra e tutte insieme danno luogo a strade ‘ospitali’, a quartieri ‘ospitali’, mentre le case ‘fredde’ stanno quasi tutte nelle parti della città che sono state costruite dopo l’ultima guerra, e tutte insieme danno luogo a strade ‘inospitali’, a quartieri ‘inospitali’.

Questo diventa alla fine un punto di vista inedito da cui ri-guardare alla città, nella quale si impara a distinguere il carattere ‘ospitale’ o ‘inospitale’ delle sue case - da una parte le case che sono state pensate e costruite per proteggere la vita quotidiana degli uomini, per allietarli con la varietà del disegno e la cura dell’esecuzione e dall’altra parte le case che si direbbero pensate e costruite non dal desiderio di vita, ma dal ‘desiderio di morte’ ( Freud): case sulle quali non attecchiscono, non fioriscono i semi della vita quotidiana. Così come si impara a distinguere il carattere ‘ospitale o inospitale’ delle diverse parti della città, perchè si impara a capire che il carattere ‘ospitale’ è più spesso presente nel disegno delle case più vecchie, dei quartieri più vecchi, quelli tutto attorno al centro storico, carattere che spiega l’amore della gente per queste case e per queste parti di città, e la rinascita che queste case e queste parti di città stanno vivendo, la loro rivincita sui progetti ‘forti’ e ‘moderni’, che fino a qualche anno fa prevedevano di radere tutto al suolo e di ricostruire tutto nuovo.

In questo ‘secondo sguardo ‘ sul mondo, c’è già la possibilità della pace, di un ‘essere nel mondo’ nella pace, perchè è uno sguardo che sospende i progetti di dominio sul mondo, per ascoltarlo con attenzione, per interrogarlo con rispetto.

Una conferma ci viene ancora una volta dal lavoro di Ghirri: nei dieci anni della maturità il suo sguardo si è allargato dai particolari del suo intorno quotidiano immediato - dalle immagini della pubblicità ai giardinetti dei villini ‘geometrili’ - al territorio dell’Emilia: ai centri storici ri-guardati nei due volumi del TCI, ma sopratutto ai paesi ed alle campagne, ri-guardati perché diventati invisibili in un Paese che sognava solo aree metropolitane sempre più grandi e congestionate (6). Invece di guardare a questi paesi e a queste campagne con lo sguardo tra prevenuto e liquidatorio che era di tutti, il ‘secondo sguardo’ di Ghirri si è fermato, si è aperto sulla bellezza mite di un modo di essere al mondo che era ancora semplice, antico e pacifico: ha così preso forma il proposito di ‘salvare’ questi paesi e queste campagne, restituendo loro la dignità e la visibilità perdute.

Come recita l’Evangelo "Ho nascosto queste cose ai sapienti e le ho rivelate ai più piccoli": il sapere ’mite’ di Luigi Ghirri, causa ed effetto del ‘secondo sguardo’, si è rivelato sulla distanza più fondato dei saperi ‘forti’, perchè oggi questi paesi e queste campagne si sono rivelati una risorsa nascosta che in molti casi ha cambiato l’indirizzo dello sviluppo.

Che cosa ancora ci dicono questi ‘secondi sguardi’ sulle bandiere, su finestre e balconi e negozi, su case, strade e città?

Questi sguardi ci dicono che ci sono persone che si occupano in modo vivace, creativo, della ‘manutenzione ordinaria’ del loro intorno domestico, del loro luogo di lavoro, ma ci dicono anche che chi si occupa con allegria della ‘manutenzione ordinaria’ di un intorno minimo, è già vicino ad occuparsi della ‘manutenzione ordinaria’ della casa intera, della via, del quartiere, della città: mi viene voglia di dire che è già vicino ad occuparsi della ‘manutenzione ordinaria’ del mondo, ad esempio occupandosi della guerra e della pace.

I termini ‘manutenzione’ e ‘ordinario’ sono normalmente intesi come ‘squalificativi’, ma questo è solo uno dei tanti luoghi comuni da rovesciare, come ci ha insegnato Walker Evans con le sue fotografie degli interni delle casupole dei contadini poveri nell’America degli anni ‘30 (7) , o più tardi Pirsig nel suo ‘Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta (8).

E’ vero che in questo momento l’attenzione di tutti va alla guerra come ‘manutenzione straordinaria’ del mondo, e che quindi la questione della pace sembra anch’essa una questione ‘straordinaria’, che si ripresenta una volta ogni tanto, mentre in realtà è questione ‘ordinaria’ nel senso che è questione da affrontare sul lungo periodo, in quanto richiede cambiamenti di mentalità, di modi di vivere, che devono appunto diventare ‘ordinari’.

Queste finestre, questi balconi, questi negozi, parlano di vite quotidiane pacifiche, di persone che si prendono cura del mondo a partire da quello domestico , così che la parola ‘pace’ non è qui un segno estraneo sovrapposto, ma è la parola che ci verrebbe comunque alle labbra davanti a questi che Ghirri chiamerebbe ‘teatrini domestici’ : ‘pace’ è il suono che questo mondo manda, è la parola che questo mondo dice già da solo e che grazie alle bandiere sentiamo più chiara e più forte.

Diversamente dal lavoro sui cantieri del metrò, che era un lavoro anomalo, una specie di sogno ‘nero’ sulla ‘guerra in casa’, questo lavoro sulle bandiere si rivelava ogni giorno di più un viaggio nel profondo della mia città - di cui scoprivo le case ‘pacifiche’, frutto dell’arte dimenticata di fare delle belle case (Branzi) - un viaggio nel profondo della mia storia, da cui riaffioravano parole, pensieri, intrecciati da anni al mio lavoro di architetto prima e di fotografo poi: i pensieri e le parole di Roberto Gabetti sull’architettura come antropologia (9), i pensieri e le parole di Diego Mormorio sulla fotografia come antropologia (10) , come pratica il cui compito primo è rispondere alla domanda "come abita l’uomo?".

Tornava sempre più spesso, sempre più chiaro, il tema delle ‘legge mite’, che non per niente avevo scelto come traccia nel presentare il mio lavoro sulle trasformazioni delle campagne del cuneese in occasione della mostra e della lecture all’università, a Melbourne (11); tornava sempre più spesso, sempre più chiaro l’eco delle parole di Heidegger, conosciuto tardi e per caso in un saggio pubblicato da una rivista di architettura (12).

L’antica parola per costruire - bauen - dice che l’uomo è in quanto abita, ma questa parola significa contemporaneamente custodire e curare... ma in che cosa consiste l’essenza dell’abitare? Sentiamo ancora una volta il suggerimento della lingua: il wuon antico sassone, il gotico wunian , significano, come l’antica parola bauen , il rimanere, il soggiornare, ma il gotico wunian spiega più chiaramente come viene esperito questo rimanere; wunian significa: essere pacificati, rappacificati, rimanere in pace.

La parola pace significa ciò che è libero, il frye , e fry significa: riparato da...cioé risparmiato..lo stesso risparmiare non consiste soltanto nel non fare niente di male a chi viene risparmiato, bensì propriamente risparmiare è qualcosa di positivo e accade allorchè in anticipo preserviamo qualcosa nella sua essenza...il tratto fondamentale dell’abitare è questo risparmiare, che attraversa l’abitare in tutta la sua ampiezza, che si mostra appena pensiamo che nell’abitare risiede l’essere uomini, nel senso del soggiorno dei mortali sulla terra.

Nel salvare la terra, nell’accogliere il cielo, nell’attendere gli immortali, nel guidare i mortali, si realizza l’abitare come bellezza della quadruplicità. Risparmiare significa: proteggere la quadruplicità nella sua essenza. L’abitare in quanto bellezza conserva la quadruplicità in ciò in cui i mortali soggiornano: nelle cose... l’abitare è sempre stato piuttosto un soggiorno presso le cose...l’abitare risparmia la quadruplicità portandone la sostanza nelle cose. Tuttavia le cose stesse custodiscono la quadruplicità soltanto quando esse stesse, in quanto cose, vengono rispettate nella loro essenza.

Mio nipote , architetto e professore, a sentirmi parlare di Heidegger ha reagito col riflesso condizionato degli intellettuali di sinistra, richiamando la condanna ormai inappellabile: "idee di destra"- molto più cattivo era stato Thomas Bernhard, che alla lontana gli era ancora parente, quando in uno dei suoi claustrofobici racconti (13), fa una descrizione irriverente dell’Heidegger ‘montanaro’, ormai preso sul serio solo più dalle signore, anzi dalle cameriere; ma io devo riconoscere che l’eco di queste parole è riaffiorato lentamente nel mio ri-guardare, nel mio ri-pensare, ed è diventato lentamente il metro del mio ri-guardare, del mio ri-pensare, perchè, nonostante il tono ‘sommosacerdotale’ di qualche passo - così definiva Wittgenstein per scherno frasi e gesti solenni ma vuoti - c’è qualcosa in questo testo che coglie qualcosa che c’è in queste immagini, qualcosa difficile da definire ma capace di innegabile attrazione.

Provo a dire: Heidegger pone l’essenza dell’umanità nella cura e nell’amore che richiede l’ordinaria manutenzione del mondo e queste bandiere, appese a queste finestre, a questi balconi dicono la stessa cosa: ‘la pace è questo, la pace comincia di qui".

Se le bandiere della politica, le bandiere del tifo, vengono tirate fuori in occasioni eccezionali, per un impegno temporaneo nel quale si entra e si esce restituiti agli altri impegni, le bandiere della pace, venute per restare, non appartengono all’eccezionalità, ma piuttosto - per citare Paolo Costantini a proposito delle fotografie della moglie di Paul Strand a Luzzara, rimaste fino a ieri nell’ombra delle fotografie eccezionali del marito (14) - alla ‘qualsiasità’ della vita domestica, della vita quotidiana, che, come ci insegna la lingua, è naturaliter pacifica: infatti si dice addomesticare per indicare la trasformazione - di un uomo come di una belva - da violento selvaggio a mansueto, pacifico.

Come al solito sembrava già tutto detto quando a Reggio Emilia, colpito dal cartellone per la strada, compro il catalogo della mostra antologica di Gerard Castillo-Lopez (15), un fotografo portoghese che non conoscevo, e nel catalogo leggo: "...Jean-Luc Godard direbbe che "representer c’est presenter deux fois ", come era solito dire "regarder c’est regarder deux fois" , mentre il giorno dopo nella pagina centrale di Repubblica, dedicata a Cartier-Bresson ( 16), leggo: " ...il fotografo invece è colui che si cura del mondo, che se ne preoccupa di continuo, che non lo abbandona mai...è il terapeuta delle apparenze, le salva e le cura..."; l’eco delle parole di Ghirri, di Heidegger, prova ancora una volta che il filo che dipano si rivela infinito, intrecciato con altri fili, diventa sempre più resistente.

Questo curare e salvare, adesso è chiaro, sono del fotografo come di chi cura e salva la sua casa, la città, e rende così evidente il legame fra vita domestica e pace, legame di cui le bandiere sono la conferma concettuale, nel senso che provano una relazione tra la parola e le cose alle quali è accostata.

Il legame intravisto tra pace e domesticità non pare arbitario. Nel suo racconto ‘nero’, ‘Il paese delle ultime cose’ Paul Auster per ben due volte associa la parola ‘pace’ a momenti domestici elementari: una prima volta quando parla di "...effetto del cibo stesso, dal primo contatto del palato al graduale e crescente senso di pace provocato dal boccone che scende dalla gola al ventre...", ma ancor più una seconda volta quando, incredibile, coinvolge proprio la fotografia "...o addirittura di foto di edifici situati lungo strade alberate, di camere confortevoli, di stanze arredate con tappeti e sedie di pelle morbida; scene piene di pace che evocano l’aroma del caffé proveniente dalla cucina, il vapore dell’acqua calda in bagno, i colori allegri dei vasi di piante allineati sul davanzale...".(17)

Ancora, in un saggio recente sugli elementi del linguaggio fotografico, Roberta Valtorta richiama Bourdieu (18) :"...per lo più la pratica della fotografia esiste e sussiste in virtù della sua funzione familiare , o meglio della funzione che le conferisce il gruppo familiare, e cioé solennizzare ed eternare i grandi momenti della vita familiare...la fotografia prolunga la festa di cui partecipa e di cui sottolinea l’importanza ...coglie i momenti belli che trasforma in bei ricordi... " e conclude "... la fotografia di famiglia si applica alla festa e ne rafforza il significato...". Queste finestre, questi balconi ‘abitati’, dicono "famiglia", mentre le facciate, le vie imbandierate, dicono "festa": queste immagini allora possono essere viste un po' come le fotografie di famiglia nel giorno di festa - tutte diverse come diverse sono, per ogni famiglia, le fotografie delle tavole imbandite nelle stanze amate - a confermare il legame intuito tra bandiere, pace, e fotografia.

Bourdieu continua e osserva che le fotografie di famiglia sono piene di ‘errori’, ma che questo non impedisce che svolgano il loro ruolo e forse è per questo che anch’io accetto gli ‘errori’ nelle mie fotografie delle bandiere.

Così, alla fine, si spiega il titolo dell’inizio: io non mi nascondo la debolezza delle mie ‘composizioni’, delle mie argomentazioni, ma anche John Lennon non si nascondeva la debolezza della frase per piano su cui è costruita Imagine (19) , strumento col quale riconosceva di sapersela cavare a malapena, però questo non gli ha impedito di provare a immaginare un mondo diverso - come fanno queste bandiere, come fanno queste immagini - e non ha impedito che Imagine sia diventata, e rimanga nei sondaggi, la canzone popolare contemporanea più amata da intere generazioni; e poi, letto all’italiana, suona come imagine, cioé immagine, e ‘immaginare’ può essere anche letto come ‘produrre immagini’ e il tutto mi ricorda l’invito di Luigi Ghirri a ‘.pensare per immagini’, che è quello che ha fatto John Lennon quando dice "...sopra di noi solo cielo...".

Note

( 1) Mario Giacomelli. Storie di terra . Città Studi. 1992.

( 2) Eugène Atget. Paris . Taschen. Koln. 2000.

( 3) Ludwig Wittgenstein. Pensieri diversi . Adelphi. Milano. 1980.

( 4) Identikit , in Luigi Ghirri . Feltrinelli. Milano 1979.

( 5) Luigi Ghirri. Niente di nuovo sotto il sole . SEI. Torino. 1997.

( 6) Luigi Ghirri. Il profilo delle nuvole . Fetrinelli. Milano. 1989.

( 7)Walker Evans . MOMA. New York . 1971.

( 8) Robert Pirsig. Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta .

Adelphi. Milano. 1981.

( 9) Roberto Gabetti. Torino,Piemonte, architetti . Celid. Torino 2000.

(10) Diego Mormorio. Altra lontananza . Sellerio. Palermo. 1997.

(11) Sisto Giriodi. Atlante piemontese . Celid. Torino. 2001.

(12) Martin Heidegger. Costruire,abitare,pensare . Lotus 9. Alfieri. Milano. 1975

(13) Thomas Bernhard. Antichi maestri . Adelphi. Milano. 1992.

(14) Paolo Costantini, Luigi Ghirri. Strand. Luzzara . Clup. Milano. 1989.

(15) Gerard Castello-Lopez . Skira. Milano. 2003.

(16) Jean Clair. Henri Cartier-Bresson . La Repubblica . 24.4. 2003

(17) Paul Auster. Il paese delle ultime cose . Einaudi. Torino. 2003.

(18) Roberta Valtorta.

(19) John Lennon. Imagine . Apple. Londra. 1972.

 

 

Liberaci dal male

 

La proposta di esporre alla Biennale d’Arte Sacra qualche immagine della ‘campagna’ sulle ‘bandiere della pace’ a Torino (2003), a commento dell’ultimo versetto della preghiera ‘Padre Nostro’ che dice "liberaci dal male", ha rimesso in moto la riflessione su questo lavoro da un punto di vista diverso, nuovo.

Così ad esempio tutto questo girare nel labirinto della città senza una meta, fino allo stordimento, alla ricerca dei segni di una opposizione pacifica, tutti i passi fatti per reagire in qualche modo alla guerra in arrivo prima , alla guerra presente poi, possono adesso essere visti come una specie di lunga preghiera, come sono stati una specie di lunga preghiera tutti i passi di Werner Herzog da Vienna a Parigi, un passo dopo l’altro fino allo stordimento, anche lui partito senza pensarci due volte, per non aspettare rassegnato la morte di Lotte Eisner., un modo forse infantile ma naturale di opporsi ad una morte annunciata con un sacrificio fisico personale, dicendo "ti prego, no" ad ogni passo.

Fa parte di questo ri-pensare il lavoro, il ri-pensare ai modi della sua presentazione, già naturalmente diversi nelle occasioni precedenti: una ‘quadreria’ nella tradizione dei ristoranti italiani (nel circolo Arci ‘Il balcone’ a Genova ); un ‘girotondo’ continuo a dividere a metà le pareti bianche (alla libreria Agorà a Torino); una ‘stenderia’ di sole stampe nel centro culturale Arslonga (nella Maison des Metallos nel quartiere operaio di Belleville a Parigi ).

In un’occasione come questa si ripropone con maggior forza la critica al modo corrente di esporre fotografie, ripreso nell’800 dalle esposizioni di quadri e da allora dato per scontato, modo che prevede fotografie sotto passepartout , sottovetro, inquadrate ed appese alle pareti nel piano della visione, più o meno distanziate, in uno spazio il più possibile neutro: stanze vuote tutte bianche; modo ancora accettato da Luigi Ghirri, che diceva che le foto devono essere appese staccate una dall’altra, perchè devono essere viste una alla volta, senza disturbarsi a vicenda, ma già criticato da William Klein per l’aura che questo modo di esporre finisce per creare attorno alle immagini, perchè la cornice, il vetro, il passepartout , finiscono per sacralizzare l’immagine. Parlando di arte sacra questo sacralizzare potrebbe sembrare appropriato, ma già Ludwig Wittgenstein aveva messo in guardia contro gli atteggiamenti ‘sommosacerdotali’, contro i riti eccessivi e vuoti, perchè " ...è ammesso solo quel tanto di rito che c’è in un bacio... ".

Questo ri-pensamento del lavoro sulle bandiere in occasione della Biennale d’Arte Sacra, dell’accostamento ad una frase del Padre Nostro, può essere riassunto in due obiettivi, su cui si cerca qui di verificare la congruenza del lavoro.

Mettere il lavoro sulle bandiere della pace sotto il segno dell’arte, intesa qui come un interrogare le forme del mondo, e quindi mettere sotto il segno dell’arte anche l’allestimento dell’esposizione, cercando una forma che si costituisca come ulteriore interrogazione sul mondo e sul lavoro stesso: di qui l’idea di riprendere la struttura espositiva delle bandiere - appese a un filo sui balconi come il bucato, insieme al bucato - per richiamare l’attenzione sulla particolarità della loro condizione, appendendo a un filo anche i fogli delle foto, in una specie di mise en abime concettuale, che conduce ad una ‘installazione’ per rivelare la natura di ‘installazioni’ di questi ‘teatrini domestici’, che rimanda poi ancora alle foto appese nei laboratori di sviluppo e stampa, lavori miti che richiedono pazienza e cura, le virtù ‘pacifiche’ necessarie all’ordinaria manutenzione del mondo.

Mettere il lavoro sulle bandiere sotto il segno del sacro, inteso qui non come irruzione di un numinoso ‘altro’, ma piuttosto come santificazione del quotidiano, come la santificazione della mensa, del pane e del vino: lavare e stendere tovaglie e lenzuola, magliette e camicie, come succede su molti dei balconi delle bandiere, sono i gesti nei quali è racchiusa la manutenzione ordinaria del mondo, che si potrebbe vedere come causa ed effetto della pace.

Di qui la scelta di rinunciare alla forza, al potere che viene alle immagini da cornici, vetri e passepartout , tutti mezzi che attirano, inchiodano, lo sguardo, che rendono le immagini autorevoli , autoritarie, per appendere i fogli delle stampe ai fili di uno stenditoio, immagine pacifica che richiama altre immagini pacifiche: quella dei foglietti con su scritte le preghiere, che sventolano al vento appesi fuori dei templi in Giappone; quella dell’installazione di H. Schult a Berlino: un muro coperto di fogli colorati che sventolano, su cui sono scritte centinaia, migliaia, di lettere d’amore.

Tutte e due gli obiettivi portano a non mettere il visitatore davanti ad una immagine da ammirare, ma piuttosto davanti ad una situazione, un esserci-nel-mondo, con cui confrontarsi.