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Parigi festa mobile

 

Parigi festa mobile

" Se hai avuto la fortuna di vivere a Parigi da giovane, dopo, ovunque tu passi il resto della tua vita , essa ti accompagna, perché Parigi è una festa mobile.".

Ernest Hemigway

 

Si chiamano feste mobili le feste che non si sa quando arrivano, perché cambiano giorno ogni anno. Nel libro di Hemingway Di là dal fiume e tra gli alberi, il vecchio soldato col cuore malandato dice alla giovane patrizia veneziana che è il suo ultimo amore "la felicità, come sai, è una festa mobile" : due parole già belle da sole, che qui sembrano una sola parola, ancora più bella , perché coglie la natura instabile, volatile della felicità; queste parole giustamente sono state scelte dalla moglie di Hemingway come titolo dell’ultimo libro - quello nato dai taccuini giovanili che aveva lasciato nei bauli depositati all’Hotel Ritz, restituitigli per caso trent’anni dopo, dentro i quali ha ritrovato la Parigi di quand’era giovane - libro pronto ma rimasto senza titolo perché lui prima di deciderlo si era sparato in bocca col fucile da caccia.

Fotografare Parigi sembra una cosa semplice, scontata - lo fanno, tutti, milioni di turisti ogni anno – ma Luigi Ghirri diceva " si fanno tante fotografie che tendono più a coprire la realtà che a rivelarla". Perché allora Parigi, perché queste fotografie?

Parigi è città legata in modo privilegiato alla fotografia, dai suoi inizi: qui nel 1839 Arago ha presentato al Parlamento al completo la scoperta rivoluzionaria, orgoglio nazionale; qui le lunghe ‘campagne’ di Marville prima e di Atget poi, hanno raccolto tra ‘800 e ‘900 l’immagine di una città ancora tardo-medievale, con paziente rigore in decine di migliaia di scatti; qui tra le due guerre Brassai per primo ha raccontato la Parigi popolare dei bistrot, delle fiere, dei casini, la Parigi mai vista delle strade vuote e buie la notte , in giro solo malandrini, battone e i fognaioli; qui dopo l’ultima guerra mondiale è stata fondata dai più grandi fotografi dell’epoca, l’agenzia Magnum - chiamata così dalla bottiglia grande di champagne che si scolavano in gruppo - qui si sono aggiunti a Cartier-Bresson, a Doisneau, fotografi ‘umanisti’ dall’Europa, Kertesz, Horvat, Koudelka, dall’America, Frank, per continuare a raccontare storie minute della Parigi quotidiana: un lavoro mai finito che queste fotografie vogliono continuare, evitando di guardare indietro, alla Parigi ‘consumata’ dei monumenti come degli angoli pittoreschi, dei baci per la strada, per chiedersi se e come sia ancora ‘poetico’ abitare a Parigi.

Le prime fotografie di Parigi erano fatte con il banco ottico, attrezzatura semplice ma pesante, che richiedeva una lunga messa a punto e lunghe pose: per questo si fotografava solo qualcosa di importante, monumentalizzandola; la disponibilità di apparecchi sempre più piccoli e leggeri, poco a poco ha cambiato tutto, ha cambiato lo sguardo del fotografo sulla città, ha permesso di fotografare aspetti della vita di Parigi, dettagli rivelatori, scartati fino allora per motivi tecnici o di ‘poetica’, processo arrivato ad esiti fino a poco tempo fa impensabili con la comparsa delle macchine digitali compatte, piccole e leggere, che fanno tutto loro e consentono a tutti di "allineare occhio, cervello e cuore" come faceva Cartier-Bresson ottant’anni fa con la sua Leica.

Lo sguardo del fotografo nella città a questo punto può coincidere con quello che dall’800 era lo sguardo del flaneur, invenzione parigina, che vagabonda a piedi, curioso e distaccato, uno sguardo mobile e intermittente, attento a cogliere le sorprese inesauribili, la festa mobile che Parigi offre, quelle che Kerouac nel suo diario parigino chiama ‘illuminazioni’.

Ma allora forse queste fotografie di Parigi ci fanno capire qualcosa sulla fotografia in sé, ci fanno capire che si potrebbe dire addirittura "fotografia come festa mobile", cogliendo qualcosa che è quasi sempre alla radice della spinta a fotografare – l’istinto della felicità, o anche solo il sentirsi a casa nel mondo - e nello stesso tempo l’incertezza di questa pratica, perché la felicità non è per sempre: questa intuizione è confermata da una osservazione semiseria di Luigi Ghirri che ha detto " si fanno le fotografie per metterle in un album per riguardarle" e da un’osservazione seria di Bourdieu, che devo a Roberta Valtorta: "la gente fotografa quando fa festa", osservazioni in cui ritrovo l’osservazione di Wittgenstein " il senso delle cose non sta in un loro in sé, ma sta nel loro uso", osservazione che chiude il cerchio nel quale si muove il lavoro dei miei ‘atlanti’ e cioè ‘fotografia come antropologia’.

Mi accorgo che svolgere il filo di questo discorso mi riporta ancora una volta a Luigi Ghirri, all’idea – sua e di Gianni Celati – di una ‘consolazione della fotografia’: la fotografia, nata per produrre copie fedeli e definitive di tutto con orgoglio positivista, come è successo ad altre invenzioni è diventata un nepente, una pratica che ci consola nel nostro rapporto tribolato con la vita, con il mondo, con cui ci mette in contatto al momento dello scatto e al momento della stampa, un contatto rassicurante perché ne conserviamo il controllo , ma anche disperante perché rimane un contatto a distanza, uno sfiorare senza mai poter toccare, possedere, un contatto incerto, mai definitivo.

Queste fotografie fanno parte di un ‘atlante parigino’, lavoro iniziato per caso dieci anni fa con i viaggi a Parigi en photographe’: sono oggi un centinaio di scatti rubati ‘à la sauvette’ (Cartier –Bresson) facendo altro: inseguendo a piedi o in metrò occasioni di contatti, andando in giro per mostre e bistrots con giovani amici; un lavoro aperto, senza fine.

Se l’atlante parigino di Atget, cerca e fissa l’immagine della Parigi tardo-medievale che sta sparendo, se gli atlanti parigini di Brassai e di Doisneau fermano il presente della loro Parigi, che nessuno aveva ancora guardata e che però oggi è scomparsa, queste immagini guardano alla Parigi di oggi, una immensa costruzione nelle cui fessure nascono nuove piante, nuovi fiori, che di nuovo nessuno ha ancora guardato, immagini chi potrebbero diventare le cartoline del nuovo secolo, rinnovando un repertorio fermo alle immagini consolanti dei maestri del ‘900.