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Case a colori

Questa comunicazione ha per oggetto un tentativo, ingenuo e sfortunato, di rendere più belle le case, di rendere più bella la città: parlo delle case costruite a Torino nel dopoguerra, dagli anni '50 agli anni '60, caratterizzate dal rivestimento musivo colorato, fatto di tesserine 2x2 (vetrose, di pietra) ma anche di frammenti di piastrelle; case anomale, uniche nel loro genere.

Mi sembra giusto dire subito che in quegli anni (io ero allora studente alla facoltà di architettura di Torino),ma ancora oggi, la cultura architettonica 'alta' ha considerato queste case come edifici privi di qualsiasi interesse, come oggetti volgari di cui parlare con disgusto o,ancora meglio, non parlare affatto, rimuovendoli dalla città reale come tanti altri fenomeni problematici, provocatori; lo stesso discorso può essere fatto per altri caratteri distintivi dell'edilizia del dopoguerra: ad esempio per gli attici e superattici, liquidati come casi di volgarità speculativa, come ha imparato a sue spese Ridolfi.

Apro una parentesi; richiesto di dare il titolo del mio intervento sui due piedi,ho scelto questo perchè era un tema già affrontato, ma poi ho continuato a pensarci ed altri temi sono emersi, tutti interessanti: quello degli attici, che offrono uno dei pochi modi piacevoli di vivere in città,che sono uno dei pochi punti in cui è sopravvissuta la bellezza in città; quello dei dehors dei bar e ristoranti, nella maggior parte dei casi patetico tentativo di ricreare una bellezza che l'architettura della città non sa più dare;quello dell'importanza degli alberi per la bellezza della città, rivelato dalle fotografie di viali e piazze ottocenteschi, colti al momento della loro costruzione, con gli alberi piccoli, appena piantati;quello delle case "a colori" mi è sembrato però ancora il caso in cui il tema della bellezza della città si presentava con maggiore evidenza,complessità e profondità.

Venturi ci ha insegnato però che si può imparare qualcosa di interessante anche dall'architettura "bassa"; proprio per questo ne parlo oggi qui, dove si parla della città e della bellezza, perchè a modo loro queste case, ancora oggi mi sembra che posano dire qualcosa su questo tema, forzare a qualche riflessione.

Proprio la lettura di Venturi mi aveva portato, all'inizio degli anni'80, a fare attenzione a queste tracce colorate disseminate nella città, a propormi di seguirle incuriosito, come Pollicino,per vedere dove mi avrebbero portato; non a caso erano quelli gli anni della caduta definitiva dei tabù, delle scomuniche, agitate fin'allora dai difensori ad ogni costo dell'ortodossia modernista, erano gli anni della Strada Nuovissima voluta da Portoghesi alla Biennale di Venezia: una mostra che ha fatto un pò da spartiacque tra un prima "ascetico ed esclusivo" (per dirla con Venturi) ed un dopo "edonistico ed inclusivo", così la mia curiosità ha trovato nell'Assessorato all'Arredo Urbano di Torino un'eco ed uno stimolo a trasformarsi in una ricerca seria, in un "censimento", sul campo ed in archivio, delle cas "a colori'".

Dal "censimento" sono uscite le schede di mille case,tirate su in dieci anni tra il '55 e il '65, ed è così uscita evidente la dimensione del fenomeno e la sua originalità: infatti questo tipo di case non si era mai fatto prima e non si è mai più fatto dopo.

Dal "censimento" sono uscite le tipologie dei decori,che sono riconducibili a due grandi famiglie; tesserine 2x2 (di vetro, di ceramica, di pietra).e piastrelle di ceramica spezzate, per quello che riguarda il materiale; decori "finiti"(che riprendono i temi della pittura realista) e "decori infiniti" (che propongono temi vicini a quelli della pittura astratta) per quello che riguarda le categorie formali.

Dal "censimento" sono usciti evidenti i caratteri "urbani" di questa decorazione: l'estensione a superfici fin'allora trascurate, come l'intradosso dei balconi,l'uso di superfici diverse a sottolineare gli spigoli; tutte scelte che tenevano conto di come le case vengono viste dalla strada, secondo punti di vista nuovi, vari e mutevoli.

Queste case mi sembra interessino i discorsi sulla città: quelli sulla necessità di un recupero della individualità degli edifici, come quelli sulla necessità di una maggiore aderenza dell'architettura alle esigenze reali della vita quotidiana.

Quella della individualità urbana degli edifici,è una questione trascurata, censurata, dall'architettura colta di matrice razionalista;è una questione già posta da Lynch, che riaffiora con insistenza,anche se in posizioni magari distanti tra di loro:da quella di Krier a quella di Venturi; ricorrendo proprio al lessico di Venturi, si potrebbero definire queste case come "decorated shed", cioè "capannoni decorati", banali fuori come dentro, animate però dalla decorazione colorata esterna, che garantisce la loro individualità urbana meglio delle eleganti e frigide varianti degli schemi correnti, tipici dell'edilizia più dignitosa.

Le case "tatuate", come le definirebbe con disprezzo Loos,sono in genere tolleranti della trivialità che sembra oggi ormai inseparabile dalla quotidianità domestica, come pure dalla quotidianità urbana: fatta di auto e motorette, di vetrine e di insegne al neon, di edicole e di barucci, tutte cose considerate incompatibili con le case 'signorili'.In queste case si attua una saldatura tra la sub-cultura di progetto che ha prodotto le case e la sub-cultura di massa, domestica ed urbana; l'ambizioso obiettivo inseguito per decenni dall'architettura razionale: arrivare ad una cultura della città che fosse integrale ed integrata alla vita quotidiana, il tutto a livello alto, secondo un modello ascetico ed esclusivo, che mirava alla continuità culturale attraverso la continutà formale,paradossalmente è stato raggiunto prima, ed involontariamente, dall'architettura banale, a livello basso, secondo un modello edonistico ed inclusivo, che realizza l'omogenità culturale proprio perchè accetta la discontinuità e l'eterogeneità formale.

Queste case interessano i discorsi sulla bellezza; da quelli sulla decorazione in architettura a quelli sull'arte applicata di massa, sull'idea moderna di bellezza.

Non è che prima di queste case non ci siano state case dalla facciata decorata, ma la decorazione edilizia tradizionale era in genere limitata ad alcune parti della facciata, e poi dipendeva dall'architettura (nel senso che era impiegata a "commento" degli elementi costruttivi costitutivi della facciata), ed anche dall'arte "alta" ufficiale, nel senso che le decorazioni erano tratte da repertori riconosciuti, fatte cioè di segni storicamente determinati, e quindi risultato di scelte culturali coscienti, di intenzioni auliche.

Il decoro musivo delle case degli anni '50 e '60 a Torino, presenta invece caratteri originali: nella maggior parte di queste case la decorazione è estesa a tutta la facciata, in molti casi si propone addirittura come infinita, ed è quindi indipendente dall'architettura (che anzi scompare sotto l'onda del mosaico) e dall'arte alta ufficiale, sia che ricicli temi consumati, portando in facciata i "quadri d'albergo" di cui parla Adorno, tipici del paesaggio domestico dell'uomo qualunque, sia che inventi nuovi patterns con disegni quasi automatici, nei quali il segno viene prima di un possibile significato.

Sul tema decorazione-architettura, come parte di un discorso sulla città, si può ancora osservare che le tesserine vetroceramiche, le piastrelle,non sono nate con queste case, esistevano già prima della guerra, ma erano usate per rivestimenti di interni:mosaici decorativi negli atri di edifici importanti, ma anche pareti e pavimenti di locali con particolari esigenze igieniche, come: bagni, cucine, negozi e laboratori.

Trasferire all'esterno ed in modo diffuso la decorazione, e poi con materiali e tecniche usati fin'allora per l'interno (o addirittura impropri, di scarto), è stata una scelta che ha sovvertito involontariamente l'ordine del discorso costruttivo, il rapporto tra facciata ed interno e tra facciata e strada, tra casa e città; solo Gaudì molti anni prima aveva avuto tanto coraggio, nella facciata a fiori della Casa Batlò e nei sedili-parapetto del Parco Guell.

La dialettica interno/esterno nell'edilizia urbana conosce così una formulazione inedita, incolta ed anonima, che precede di qualche anno la provocazione, "colta e firmata", di Venturi, il quale propone di "imparare da Las Vegas".

Già nei primi anni del '900,Loos avvertiva le spinte forti e contraddittorie presenti nella civiltà urbana industriale, che si voleva collettiva e razionale ed insieme personale ed irrazionale nella definizione dell'intorno domestico; a questa antinomia Loos aveva dato una soluzione un poco schizofrenica, che riconosceva una legittimità alle opposte spinte ed assegnava ad ognuna una sfera riservata: "sull'interno della vostra casa avete sempre ragione voi però verso l'esterno l'edificio dovrebbe restare muto.. l'esterno appartiene alla civiltà... l'interno può appartenere al cattivo gusto personale..".

Vent'anni dopo Loos, nei manifesti dell'architettura razionale, viene invece proposto un modello unitario, ascetico ed esclusivo, nel quale interno domestico ed esterno urbano coincidono: dal cucchiaio alla città tutto deve essere puro e povero,le case devono essere bianche e spoglie, dentro come fuori.

Con Venturi siamo al rovesciamento della posizione di Loos come di quella degli architetti razionalisti; le case devono essere decorate fuori come dentro, l'individualità degli edifici si raggiunge meglio con decorazioni superficiali che con contorsioni scultoree; i modelli edonistici ed inclusivi dilagano dall'interno domestico all'intorno urbano, sono indicati come l'unica dimensione reale di intervento, e gli scatoloni decorati sono l'unica vera architettura per la gente comune, per la città contemporanea.

I decori "finiti" sono un esempio di arte applicata di massa. Sono questi gli interventi decorativi intenzionali ed espliciti, veri e propri quadri (a volte anche firmati) posti in facciata, quasi sempre in corrispondenza dei balconi.

Ci sono quadri astratti per i quali è possibile rintracciare un'origine "alta" nell'arte astratta ufficiale dello stesso periodo, e ci sono quadri figurativi che hanno un'origine "bassa" nei temi prediletti dell'arte di massa; come i camions dell'Afghanistan, come i tabelloni dei flippers, questi quadri in facciata rivelano i temi dell'immaginario collettivo, in questo caso di quello della piccola borghesia torinese degli anni '50 e '60: la natura (il mare, la montagna), i "bei posti" (Parigi, la Grecia, l'Oriente), i capolavori dell'arte (Van Gogh).

Si può quindi parlare di arte applicata perchè una tecnica di decorazione e di rappresentazione dall'origine antica e nobile (i mosaici romani o bizantini) viene impiegata in un contesto produttivo-tecnico-funzionale: in questo caso di rivestimento protettivo e di finitura di un bene di scambio nel mercato edilizio, di massa, perchè l'intervento musivo decorativo non è destinato ad una fruizione limitata, a pochi intenditori, e poi perchè i temi sono quelli dell'immaginario collettivo, e perchè la riproducibilità è possibile grazie al modo di produzione industriale.

I decori "infiniti" appartengono di diritto all'arte moderna; infatti nell'arabesco prima Baudelaire e poi Benjamin, hanno riconosciuto la struttura formale che meglio esprime l'idea moderna di bellezza.

Le frasi di A. Branzi "i sistemi decorativi costituiscono un sistema di informazione teoricamente infinito". Ed ancora "la decorazione è un sistema linguistico che presuppone il non finire.." colgono una caratteristica dei patterns decorativi a grana fine: nei tessuti, nelle tappezzerie, ed in questo caso nelle tesserine musive.